Errare è umano, ma perseverare è diabolico. Quello che è successo ieri al Tardini, durante un combattutissimo Parma-Lazio, lascia esterrefatti, tanto da resuscitare i mostri del passato, le congetture più assurde, e i soliti sospetti malefici. Abitudini italiche. Abitudini parmigiane e di ogni angolo del pianeta calcio. Tutti contro l’arbitro. La “giacchetta nera” come il diavolo. Come un virus contagioso e senza rimedi.
Una premessa doverosa prima di addentrarci nei due colossali errori commessi dall’arbitro Marco Di Bello della sezione di Brindisi, che ieri al Tardini ha festeggiato (si fa per dire) la sua centesima direzione in serie A. Una festa piena di veleni, quelli di sponda gialloblù, perché i due rigori non concessi al Parma hanno scandalizzato tutti: tv, giornali e siti nazionali, tutti concordi nel sostenere che al Parma mancano due rigori sacrosanti. Due. Ripeto, due: al minuto 55′ Marusic tira giù in area Bruno Alves; al 91′ Acerbi trattiene in modo palese Cornelius al limite dell’area piccola. Non si tratta di contatti sospetti, ma di certezze, come hanno affermato ieri sera tutti i moviolisti italiani.
E nell’era del Var, delle telecamere che spiano tutto e tutti, è qualcosa di inspiegabile. Il regolamento consente all’arbitro di sbagliare, certo, e di non essere ripreso dal Var se non in casi di “errore evidente”. Appunto. Più evidenti di questi non si può. Perché l’esperto Banti, ieri addetto al Var, e la sua squadra appiccicata davanti ai monitor non è intervenuta? Perché al signor Di Bello non è venuto alcun sospetto e non è andato a rivedere le due azioni incriminate? Per caso non funzionavano gli auricolari? Un corto circuito? O un blitz dei marziani sulla terra?
Passi il primo errore su Bruno Alves, ma non il secondo, in pieno recupero. Rivedere quel’azione al Var sarebbe stato un gesto di onestà intellettuale e di trasparenza, oltre che correttezza. Ma evidentemente all’Aia e alla Figc sono argomenti che non interessano, perché se si lascia tanta discrezionalità in mano ad un arbitro significa che si vuole andare in questa direzione. Che le partite siano in mano ad un essere umano e non alla tecnologia. La supremazia dell’uomo, pardon dell’arbitro.
Davanti a questi scenari è praticamente impossibile non pensare al peggio, se ne facciano una ragione anche tutti i buonisti e i conservatori del gioco calcio. Il Var è lì per evitare certi problemi, per azzerare definitivamente i dubbi e i sospetti di strani complotti, di partite aggiustate, di sudditanza psicologica, di arbitri e dirigenti corrotti. Quindi, come giudicare la scelta di ieri di Di Bello di non affidarsi al Var? E’ buona fede o mala fede? E’ sudditanza o semplice incapacità? Menefreghismo o complottismo? E Banti, che è nella sala Var, perché non richiama l’arbitro reo di un aver commesso un errore palese?
Le immagini parlano chiaro: Di Bello e il Var hanno commesso due errori colossali e il Parma è stato penalizzato (per diritto di cronaca riportiamo anche la versione di chi sostiene che sia stato prima Cornelius a commettere il fallo ottenendo così un vantaggio di posizione su Acerbi grazie ad una precedente spinta). In ogni angolo del mondo si chiamerebbe “danno subito”. Nel calcio italiano no, per di più chi commette l’errore, in questo caso l’arbitro, può starsene, anzi ha il diritto di starsene in silenzio, senza dare spiegazioni, senza chiedere scusa a nessuno e magari utilizzare il cartellino giallo (o rosso) per addomesticare i ribelli. Un intoccabile, insomma, che può sbagliare e condizionare una partita, come prima, quando il Var non esisteva.
Non è una questione di risultato, di sconfitta o pareggio, anche perché poi i rigori bisogna calciarli e segnarli, ma è un principio morale e giuridico. Il Var c’è e va utilizzato per annullare ogni dubbio, ogni sospetto, ogni falla del sistema; per assegnare o no un rigore. E invece siamo punto e a capo. La non evoluzione. Una vergogna. Un insulto all’intelligenza.