Entra in contatto:
lucarelli alessandro il capitano

Parma Calcio

Caro Alessandro, hai proprio ragione!

Caro Alessandro, hai proprio ragione!

Prima di dedicarvi alla lettura del seguente editoriale, vorrei che fosse ben chiaro un principio fondamentale che ho sempre seguito (dal punto di vista giornalistico) ma che, per un insopprimibile necessità di trovare un senso a quanto sta accadendo in queste calde ore pre-derby, in questo caso ignorerò totalmente: un tifoso non dovrebbe scrivere della propria squadra perché difficilmente sarà obiettivo.

Fatta questa premessa atta a chiarire il tono semi-serio del testo che segue, andiamo dritti al punto: La Lega Pro, l’AIC e alcuni colleghi giornalisti sbagliano. Alessandro Lucarelli ha ragione.

Il Capitano del Parma Calcio 1913 nelle competizioni ufficiali indossa la maglia del Parma Calcio 1913 e così i suoi compagni. Assegnare a determinate partite uno status speciale con regole “ad hoc” per favorire tra le tifoserie una “pax” tanto forzata quanto fasulla è nella migliore delle ipotesi inutile e nella peggiore addirittura dannosa potendo inasprire gli animi ben prima della discesa in campo.

Per chi non avesse seguito la questione e volesse un riassunto (con annessa una valutazione che condivido in pieno) consiglio l’articolo di Riccardo Schiroli su StadioTardini.it

Prima che qualcuno accusi me e questo quotidiano di fomentare le frange estreme della tifoseria chiarisco subito: i violenti non dovrebbero entrare allo stadio. A prescindere. Chi ha voglia di menar le mani per quanto mi riguarda si dovrebbe iscrivere a un qualunque corso di gestione della rabbia o di arti marziali miste (così oltre a darle, le prende) levandosi dalle scatole. Lo stadio deve essere un luogo di divertimento in cui applaudire le gesta atletiche, tecniche e di fantasia dei 22 giocatori in campo. Con la possibilità di esibirsi in libertà in cori, sfottò, applausi, urla, lacrime, fischi e potendo esibire striscioni, gonfaloni, bandiere, disegni, opere di fantasia e qualunque cosa che simuli, senza mai trascendere, la battaglia. Lo stadio deve essere un luogo in cui portare il proprio figlio senza poi doversene pentire.

Gli studiosi Elias e Dunning ( Oxford, 1986), definirono lo sport come uno dei protagonisti del processo di civilizzazione che iniziato in Europa intorno al ‘700, si è poi completato a fine dell’800 e nei primi del ‘900, il periodo di nascita dei primi “Cricket and Football” club. Vogliamo andare a scomodare De Coubertin e le sue Olimpiadi che soprattutto all’inizio si svolgevano tra un conflitto (non sublimato) e l’altro? O gli antichi greci e la tregua tra belligeranti durante la disputa delle gare? E che dire dei nostri palii e giostre medievali? Dei terzieri, quartieri e contrade con i propri stemmi e colori?

Forse è questo il punto della questione. Sembrano proprio i colori ad essere diventati il problema scatenante. In un mirabolante quanto goffo tentativo di sparigliare le carte e di trovare colpevoli estranei all’essere umano in quanto tale, alla sua natura. Ecco in questo la Lega Pro ha sbagliato totalmente. Ottime intenzioni ma esecuzione errata.

In primo luogo perché, come detto, sono già lo sport e il calcio ad avere e ad aver avuto il ruolo preciso di cassa di compensazione per scaricare le tensioni tra le “fazioni” creando situazioni di simil-guerra. Portando la competizione dal campo di battaglia al campo sportivo. Per potersi immedesimare nello “scontro” in atto sul terreno di gioco.
E cosa succede se spostiamo l’attenzione dalle azioni violente e censurabili dei singoli facinorosi (o dai gruppi di violenti) che non riescono a controllarsi, ai simboli di una squadra? Chi viene punito in realtà è proprio la squadra con i suoi stemmi, i suoi colori e le sue maglie.
Che sono però, in ultima analisi, ciò che unisce la comunità e non ciò che divide. Sono ciò che crea un senso di appartenenza. Viene punita quindi la comunità. E siamo certi che non erano queste le intenzioni della dirigenza di Lega. Ma il risultato è quello che conta.

E se togliamo i colori che sono gli elementi fondamentali per far funzionare questo potente catalizzatore di emozioni, forzando una mescolanza di simboli e colori in una poltiglia incolore e informe, non resta nulla della competizione che conosciamo. Non resta nulla della guerra sublimata e mimata. Il rischio è anzi che si torni a “giocare” alla guerra vera. Quella che fa male. Male davvero.

Ecco perché, in tutta onestà, mi sento molto più vicino al nostro capitano che alla pletora di partigiani del fair-play forzato a tutti i costi.
In quanto forzato non è fair-play che dovrebbe essere un obiettivo a cui ambire e non una punizione da subire. E non c’è bisogno di fare tutte le valutazioni di cui sopra per capirlo.

Cara Lega Pro, bene l’iniziativa “Non c’è partita senza avversario” ma ricordo che per unire (e non punire) un parmigiano e un reggiano c’è già la maglia azzurra, ogni 2 anni. Mondiali,  Europei e anche amichevoli. E state certi che Lucarelli non ha nulla in contrario ad indossarla.

Caro Alessandro, hai ragione tu. La tua maglia è quella del Parma. Da contratto. Tutto il resto sono chiacchiere e retorica spicciola. Visto che ci sei, fai così: segna un bel gol, magari di testa. Esulta come si deve e mettili a tacere tutti.

 

Francesco Lia
Direttore SportParma

Commenti
Pubblicità
Pubblicità
Pubblicità

Altri articoli in Parma Calcio