A trentacinque anni, ha attraversato tre lustri della storia dell’Italrugby. Passando per momenti esaltanti e tristi, entusiasmanti e grigi, sempre pronto a dire la sua, a dare il 100% quando c’è di mezzo la maglia azzurra.
L’esordio a diciannove anni contro l’Olanda, nel 1998 e da allora una teoria di incontri, battaglie, mete, gioie e delusioni. Per arrivare sabato 21 giugno a Tokyo, al Prince Chichibu Memorial Stadium, dove indosserà la maglia dell’Italia per la centesima volta in carriera e si avvierà da solo verso il centro del campo prima del fischio finale. Mauro Bergamasco, flanker padovano delle Zebre Rugby, non ha bisogno di troppe presentazioni. Enfant-prodige del rugby italiano nell’era Cose prima ed in quella Johnstone poi, un rapporto controverso con John Kirwan tra il 2002 ed il 2005 per poi divenire punto fermo della gestione Berbizier e per buona parte di quella di Nick Mallett, entra sabato nella ristretta cerchia di centurioni del rugby internazionale. Non è l’Azzurro più presente di tutti i tempi – davanti a lui Bortolami, Parisse, Castrogiovanni, Lo Cicero e Troncon – ma è quello più longevo, un primato strappato durante il 6 Nazioni 2014 a Sergio Lanfranchi. Mai capitano, spesso leader sul campo, capace di rimettersi in discussione dopo la Rugby World Cup 2011, di tornare in Italia dopo otto anni a Parigi, sponda Stade Francais, per non perdere il treno azzurro.
Partiamo dal fondo, dalla partita con il Giappone, da questo centesimo cap con la Nazionale…
“Va bene fare cento caps, va bene che se ne parli, ma io penso soprattutto che sabato questa gara con il Giappone dobbiamo vincerla. Vogliamo finire questo tour nel migliore dei modi, la volontà di vincere c’è, l’attitudine del gruppo è quella giusta. E’ stata una settimana più corta per la preparazione, la tappa in Nuova Zelanda ci ha fatto perdere un giorno, ma abbiamo limato le cose che non andavano, sistemato certi particolari. Vogliamo portare a casa la partita. I cento caps, per ora, possono rimanere nel cassetto, ci penseremo poi” spiega il maggiore dei due fratelli Bergamasco – Mirco è a Roma, con la Selezione “a sette” impegnata domani e dopo nel Roma Seven 2014.
Quindi, emozioni a zero?
“Sarà sicuramente un giorno particolare ed importante per me, non lo nascondo – spiega Mauro – ma voglio credere che le cento apparizioni siano solo il normale frutto del lavoro che ho sempre portato avanti”.
Sedici anni, una carriera così lunga non capita a tutti…
“Non ho segreti per essere ancora qui, dico solo che è necessario sapersi adattare all’evoluzione del gioco, rispettare il proprio fisico, riflettere sempre con attenzione su stessi per rinnovarsi come atleti: sono qui da sedici anni ed il rugby è cambiato moltissimo, il gioco di oggi è totalmente diverso per fisicità, velocità, tattica e strategia da quello di pochi anni fa”.
Sabato il Giappone, all’orizzonte dopo il tour che cosa?
“A medio-lungo termine, dico la partecipazione alla Rugby World Cup del 2015 in Inghilterra, sarebbe la mia quinta (solo un altro giocatore, Brian Lima, ne ha giocate tante ndr): ma per arrivarci, ci sono ancora molte tappe da portare al traguardo. Con le Zebre e con la Nazionale”.
Dopo, magari, arriverà il momento di appendere le scarpette al chiodo…
“Per il dopo ho tanti progetti, tante attività già avviate. Non mi è mai piaciuto concentrarmi su una cosa sola. Farò i corsi per insegnare il nostro sport ai giovani, mi è sempre piaciuto lavorare con loro, organizzo da anni anche un campus estivo. L’allenatore? E’ una possibilità, mi piacerebbe”.
Il PRO12 ha fatto vedere diversi giovani flanker italiani promettenti in questo primo quadriennio. Ma il nuovo Bergamasco chi è?
“Quando si ritirò Diego (Dominguez) mi chiesero chi fosse il suo erede. Dissi che non ci sarebbe mai stato un altro Dominguez, ma ci sarebbero stati dieci forti come lui in maniera diversa. Vale lo stesso per me: ci sono tanti giovani di valore che ricoprono questo ruolo secondo le loro caratteristiche. Non cerchiamo un nuovo Bergamasco, non serve”.
Cento partite con l’Italia. Quella che vorresti rigiocare.
“Dico quella con l’Inghilterra, primo turno dei Mondiali del 1999. Alla prima ruck, mi incornano e mi rompono le costole. A casa, dopo forse tre minuti. Sì, rigiocherei quella”.
E quella più bella, per finire…
“Qui proprio non ho dubbi, e dico quella al Flaminio contro il Galles nel 2007, in coppia ai centri con mio fratello per tutto il secondo tempo. La meta nel finale, su calcetto di Pez, fu una cosa tutta nostra e fece saltare in piedi venticinquemila persone. Non potevamo sognare di meglio”.